Ricapitolo: non trovando risposte all’interno del mondo accademico sulla musica tradizionale africana, parto in Burkina Faso per uno stage di 40 giorni all’interno di un atelier di costruzione di strumenti musicali tradizionali.
Dopo un viaggio di 3 giorni, arrivo nel luogo dei sogni e i pianeti si allineano insieme ai miei 7 chakra, dandomi una scossa lungo la spina vertebrale.
E insomma sono lì, in uno stato di semi shock e, onestamente, sono immobilizzato e non so che pesci pigliare. Continuo a guardarmi intorno e a sgranare gli occhi come un come un pesce rosso in una boccia mentre una voce nella mia testa mi dice: “Bene, e adesso che siamo arrivati fin qui, che cosa diavolo facciamo?”
Questo stato catatonico, non previsto e un po’ imbarazzante, continua a durare finché la mia compagna non fa la cosa più normale di questo mondo – un guizzo artistico impensabile per un capricorno ascendente sagittario con tratti borderline della sindrome di Asperger come me: semplicemente, prende uno sgabello, si siede affianco ad uno degli artigiani e inizia a chiacchierare. In un francese che vi lascio immaginare.
Mi sembra un’idea geniale e faccio lo stesso, per imitazione meccanica: eccomi per la prima volta seduto al fianco di Sā Mamadou Traoré.
Un signore magro, un po’ curvo, con un incisivo non allineato rispetto agli altri che spunta fuori da una bocca sorridente sì, ma anche impiastricciata da anni di dipendenza da quello che pensavo essere tabacco da masticare – scoprì dopo essere una miscela di potassio e tabacco e altre cose che non capito troppo bene, altamente energizzante ma anche estremamente assuefacente chiamata Saa Mougou [leggì sàmmugù, ndr]. Scoprì anche che molti suonatori di balafon hanno questa forte dipendenza in quanto fin da piccoli iniziano a masticarlo mentre suonano ininterrottamente durante la notte per combattere la fisiologica sonnolenza.
Quaranta giorni al fianco di Sā Mamadou Traoré furono un’esperienza bellissima:
riuscivamo a comunicare a modo nostro e la sintonia che si sviluppò nel tempo ci permise di fare dei discorsi sempre più profondi e intimi. Ci presentò non solo alla sua famiglia, ma ci prese e ci portò nel suo villaggio, dove potemmo osservare l’importanza e la risonanza di questa persona apparentemente gracilina e un po’ fragile. Scoprimmo infatti che Sā Mamadou Traoré, per gli amici Samadou, è ormai il più anziano di un grande e antichissimo gruppo familiare di balafonisti di etnia Samblà. La sua casa, una corte nella quale ho vissuto per 6 mesi fra il 2020 e il 2021, è un continuo andirivieni di parenti, amici e spesso anche sconosciuti che vengono ad incontrarlo per chiedere consulto, regolare piccole dispute familiari, o semplicemente a far visita al loro caro amico.
Posso dire tranquillamente che le più belle e più interessanti esperienze in Burkina Faso, che sono fra le più belle ed intense della mia vita finora, le ho fatte grazie ed insieme a lui: mi ha insegnato molti segreti della costruzione del balafon, mi ha scarrozzato in motorino nelle foreste da un villaggio all’altro a caccia di cerimonie tradizionali (esperienze incredibili di cui sicuramente in seguito scriverò), mi ha fatto sedere alla sua tavola ogni giorno per sei mesi e mi hai insegnato le basi della lingua tradizionale Samblà. Mi ha insegnato ad estrarre la gomma dall’albero e successivamente a stenderla per creare le bacchette con cui si percuote il balafon. Mi ha fatto capire l’importanza della famiglia e delle tradizioni africane e mi ha anche trasmesso una sottile, ma profonda, intima e costante disperazione legata alla fatica della vita in Burkina Faso, uno dei paesi più impoveriti al mondo.
In Africa la famiglia è fondamentale ed è impensabile non avere un padre. Anche in caso di sfortunate dipartite paterne, uno zio diventa il tuo papà. Non esiste neanche, la parola “Zio”. Sono tutti “Papà”.
E quindi, dopo un po’ che gironzolavo per le strade di Bobo Dioulasso, in maniera scherzosa e distesa, la gente iniziò a dire che ero figlio di Samadou e noi portammo avanti questo simpatico equivoco.
Nel tempo la cosa ci scivolò di mano e si fece sempre più seria.
Nel 2022, siamo al punto in cui il signore da cui faccio colazione la mattina mi chiama “Monsieur Traoré”.
Nei villaggi Samblà, mie amatissime mete esplorative degli ultimi anni, tutti mi conoscono in quanto figlio di Samadou.
E’ una cosa un po’ strana, a tratti malata se ci penso, dato che il caro Vincenzo, mio papà biologico e che, come lui ama ricordare, mi ha nutrito e pulito il culetto quando ero piccolo, gode di ottima salute e vive serenamente nella sua bella casa in Salento, grazie a Dio.
Ogni tanto penso a questo fatto e mi dico ridendo: “Che figlio ingrato e snaturato!”
Però poi penso al legame che si è creato con Samadou ed onestamente non saprei trovare un’altra parola per descrivere il nostro grado di relazione.
Scusate questa nota così intima e personale, ma ci tenevo a raccontarvi questa storia. E questo capitolo emotivo è fondamentale, a mio avviso, per proseguire il racconto della mia esperienza in Burkina.
Perché si sa che siamo corpo, cuore e mente.
La mia mente era decisamente già proiettata verso la scoperta di quei luoghi, quindi era “ok” nella check List dei chakra da allineare.
Il corpo ce l’ho portato a novembre del 2016, e quindi anche questo era stato fatto.
Il cuore si è allineato al resto molto presto, grazie agli incontri, alle esperienze, alle amicizie genuine che si sono susseguite nel tempo.
Una valanga di esperienze indimenticabili, la maggior parte delle quali rese possibili proprio dal mio caro Sig. Sā Mamadou Traoré.