Era un afoso pomeriggio di agosto del 2016 e sudavo copiosamente davanti al mio PC.
Oltre alla calura Salentina, ciò che mi tremendamente mi surriscaldava non erano sedicenti e luridi filmati hard come alcuni fra voi maliziosi staranno pensando, bensì clip di Youtube sulla musica tradizionale africana.
In quanto percussionista e amante della musica, sono da sempre stato attratto dal quella vena diamantifera africana presente in numerosi generi musicali, dal jazz al samba, dal blues all’Hip Pop, oltre a tutti gli altri generi in cui musicisti di colore avevano messo lo zampino. Avevo divorato la biografia di Miles Davis più di una volta ed ero d’accordo con lui quando diceva che “avrebbe potuto riconoscere un nero suonare ad occhi chiusi.”
Forse non avevo affinato quel talento allo stesso livello di Miles, ma sicuramente sentivo qualcosa di molto profondo venir fuori dalla musica di Coltrane ed Elvin Jones, BB King, Art Blakey, Bob Marley, Stevie Wonder, Ray Charles… Devo continuare?
Studiavo nei corsi accademici jazz in Italia ed ero fresco di diploma in un’accademia di musica moderna, le mie domande sulla musica tradizionale africana non trovavano risposte adeguate e così, in quell’afoso pomeriggio di agosto, decisi che era davvero il caso di partire.
Avevo già compiuto il primo viaggio in Africa, passando un mese nel villaggio di Chakama, contea di Kilifi, in Kenya. L’incontro con la cultura Masai fu folgorante, ma più che di musica scoprì di come si potesse andare a caccia di leoni con una lancia ed un pugnale, o di come si possa costruire una casa piuttosto confortevole utilizzando del pregiatissimo letame di mucca.
Bello, ma non intravedevo per la faccenda plausibili o igienici sviluppi musicali.
In Burkina, invece, venni folgorato.
La folgore mi colpì una volta arrivato a Bobo Dioulasso, nell’atelier di Baragnouma. Il proprietario, un all’epoca sconosciuto ed oggi caro amico francese di nome Fabrice Berre, offrì a me e alla mia compagna dell’epoca la possibilità di lavorare per lui, uno stage di 40 giorni durante i quali entrammo a contatto con un gruppo di 14 musicisti e artigiani Burkinabè che non vedevano l’ora di accogliere la nostra curiosità e voglia di scoprire la tradizione musicale del West Africa.
Il viaggio era stato lungo: Lecce – Napoli in autobus, scalo ad Istanbul, arrivo a Ouagadougou.
Primo pernotto su suolo africano in una stanza nel Centro Culturale Gambidì: ci svegliammo di buon mattino avvolti da una stupenda luce rossa, di sole e polvere.
Da lì, 6 ore di autobus fino a Bobo Dioulasso, capitale culturale del Burkina.
Ricordo l’emozione e la tensione mentre l’autobus mastodonticamente separava un flusso caotico di impavidi motorini, manovrando per parcheggiare alla stazione degli autobus nel cuore del mercato centrale della città.
Sbuffando e dondolando si arenò in un oceano di colori, copricapo, donne con bambini fasciati sulla schiena, cortei di venditori ambulanti, carretti trainati da muscolosissimi ragazzoni con le fronti imperlate di sudore, bancarelle di carote, pomodori, fagioli e cipolle, tantissime cipolle.
Sotto un sole cocente ci aspettava Fabrice Berre. Rigorosamente in abiti sportivi neri, con una mascherina antipolvere a coprirgli il volto.
Ci caricò in una station wagon sgangherata per poi scaricarci nel suo atelier.
Allineamento planetario.
14 artigiani e musicisti, figli di generazioni di musicisti e artigiani prima di loro, ci accoglievano a braccia aperte e con un sorriso bianchissimo dietro dei volti nerissimi.
Quel giorno non lo sapevo ancora, ma stavo incontrando alcune fra le persone che avrebbero cambiato radicalmente la mia vita, le mie aspirazioni, i miei progetti e i miei programmi.
Nacque immediatamente la voglia di non tornare più, di rimanere lì ancora ancora e ancora, e capì immediatamente che in quel luogo ci sarei tornato ancora, ancora e ancora.